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“Vivere e narrare il romanzo del Made in Italy”. Gli Anni Sessanta, quando il Mercato comune europeo era ancora bambino (1)

01 agosto 2024

Pubblichiamo,  a cominciare da oggi, alcuni stralci che ci paiono interessanti e anche godibili,  del libro di Tommaso Maria Gliozzi, il trade commissioner delI'ICE(Istituto Commercio Estero) che ci aiutano a capire e a conoscere le potenzialità espresse dal Made in Italy nel mondo. Cominciamo dall'inizio, dagli anni Sessanta, quando il Nostro entra all'ICE.

C'è una vignetta, in inglese, che sta facendo il giro dei social e che fotografa bene una peculiarità del saper fare italiano. Ci sono due bambini appollaiati sul ribaltabile di un furgone. Uno chiede all'altro: "anche voi dite le preghiere, a tavola, prima di mangiare?". "No – è la risposta – noi siamo italiani; mia mamma sa cucinare".  Leggendo il libro di Tommaso Maria Gliozzi "Foglie di alloro. Vivere e narrare il romanzo del Made in Italy" - da poco ripubblicato con due appendici dedicate proprio alle nuove iniziative del governo per il Made in Italy - ci si imbatte continuamente in episodi della vita di un trade commissioner dell'ICE, che ti fanno riflettere: "ma allora, noi italiani siamo davvero bravi! Perché oggi spesso ci facciamo del male da soli nella competizione globalizzata?". Alcune risposte si trovano proprio in questo libro.

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Anni '60. Quando il Mercato comune europeo era ancora bambino

Mi accorsi subito che l'ambiente di lavoro era gradevole. Il personale era gentile, collaborativo, tutti si comportavano come fossero amici di vecchia data. C'era solidarietà; si aveva fiducia nell'Istituzione e si dichiarava apertamente l'orgoglio di appartenere ad una organizzazione che, per il ruolo che esercitava nei confronti delle imprese e per la professionalità con cui lo svolgeva, godeva di un elevato prestigio sia in Italia che all'estero.

Promuovere la presenza delle aziende italiane sui mercati esteri e facilitare il contatto degli importatori stranieri con le nostre imprese era, infatti, l'attività piú importante e più gratificante nell'ambito dei rapporti dell'Italia con gli altri paesi; e ciò soprattutto per due motivi: primo, la crescita dell'economia italiana dipendeva fortemente dalle esportazioni e, quindi, anche l'investimento pubblico per la loro promozione era consistente; secondo, la diplomazia politica aveva ceduto parte del suo ruolo sia alle nuove tecnologie della comunicazione, sia al nuovo astro nelle relazioni tra le nazioni, la diplomazia del "business", rappresentata dal complesso dei loro rapporti economico finanziari.

Eravamo agli inizi degli anni '60; Roma rifletteva l'euforia e la gioia di vivere del Paese, che realizzava tassi di produzione, di occupazione e di reddito senza precedenti nella sua storia, e tra i più alti d'Europa. Giovane, bene indottrinato, mi adattai facilmente al nuovo ambiente; crebbi in ambizione, ma non mi abbandonò mai la convinzione che ogni traguardo si raggiunge con paziente costanza nella serietà e nella determinazione.

Erano trascorsi appena quindici anni dalla seconda guerra mondiale e il sistema produttivo italiano ostentava già un'ossatura solida e ben definita. Essa era caratterizzata dal capovolgimento del ruolo dell'agricoltura rispetto e a favore dell'industria. Quest'ultima era costituita da migliaia e migliaia di piccole imprese sorte dalle macerie della guerra per soddisfare nuove esigenze postbelliche. Spesso si era trattato di artigiani e di operai che, in piccoli locali e con macchinari di fortuna, si erano improvvisati imprenditori. Il lavoro indefesso e un indistruttibile desiderio di riuscire, assecondati da una domanda internazionale in continua evoluzione, trasformarono quei piccoli, coraggiosi pionieri in altrettante storie di successo.

Nel frattempo, si erano riorganizzate con piani ambiziosi le aziende di vecchie famiglie: Agnelli, Pirelli, Orlando, Falck, Olivetti, Marzotto, Barilla, Ferrero, e si erano consolidati i grandi gruppi di Stato – come IRI ed ENI – con una diversificazione produttiva multisettoriale.

Lo Stato aveva incoraggiato il sorgere di questo organigramma produttivo; esso doveva ora sostenerne il lancio sui mercati esteri, promuovendo la vendita dei suoi prodotti.

Per grandi aree geografiche e per singoli mercati, si definivano le strategie di intervento, sia a favore delle piccole e medie imprese, sia a favore dei grandi gruppi. L'ICE partecipava all'istruttoria del Piano, avanzava le sue proposte al Ministero del Commercio Estero ed era incaricato della realizzazione del programma definitivo delle iniziative previste nei vari paesi.

Una funzione, quindi, quella dell'ICE, tanto impegnativa, quanto affascinante; un compito difficile, ma anche gratificante, perché dal suo corretto esercizio dipendeva lo sviluppo e, talvolta, la sopravvivenza di tante aziende; un lavoro che esponeva a critiche, ma che dava anche autorità e potere.

Vidi tutto questo come una missione di rango superiore, molto influente nell'economia nazionale; me ne innamorai, come ci si innamora di una creatura vivente, nel cui essere ti dissolvi, perché le credi ciecamente, e dai amore e ti aspetti amore.

Il Mercato Comune Europeo era ancora un bambino che affrontava i primi passi. Oltre che dalle barriere doganali, la circolazione nei Paesi europei di alcune merci – specie nel settore alimentare – era frenata da un sistema di contingenti, amministrati anch'essi dall'ICE; ad esso spettava, inoltre, il controllo dei prodotti agricoli destinati all'estero, e il rilascio di visti per l'esportazione.

La gestione di quelle operazioni conferiva all'Ente ulteriore potere; le aziende ne erano consapevoli ed esprimevano ufficialmente gratitudine per l'equo utilizzo che se ne faceva.

Nella organizzazione interna dell'ICE, la burocrazia era ridotta all'essenziale, per via di disposizioni che delegavano ai singoli funzionari poteri e responsabilità sia in Italia che negli uffici all'estero. Pressoché inesistente era poi la burocrazia nei rapporti con le imprese: alle loro richieste, anche telefoniche, si davano risposte immediate, o, al più tardi, in giornata e con i mezzi di comunicazione più veloci a disposizione.

In Italia, nel firmamento della Pubblica Amministrazione, l'ICE era considerato una stella di riferimento: per snellezza decisionale, per efficienza funzionale e per efficacia operativa sostanziale. Una organizzazione che i governi stranieri ci invidiavano e che fu poi imitata da diversi Paesi europei e americani, come Belgio, Spagna, Portogallo, Brasile, e altri.

Il complesso dei rapporti con l'esterno, sia in Italia che all'estero, erano improntati a praticità e concretezza; erano rapporti operativi, ma che non escludevano, in molte circostanze, aspetti delicati e comportamenti di rappresentatività. Nelle assunzioni, l'amministrazione selezionava i suoi futuri funzionari anche sulla base di tali esigenze.

Quando, circa un anno e mezzo più tardi, affrontai il concorso pubblico, rientrai tra i venticinque vincitori; mi sentii felice! I sacrifici che avevo affrontato, lavorando e studiando contemporaneamente, avevano pagato; ma non sospesi le lezioni di inglese e di francese, che prendevo da insegnanti di madre lingua.

1-Continua

 

 

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