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La quarta puntata del viaggio con il Made in Italy narrato da Tommaso Gliozzi nel suo libro "Foglie d'alloro" (YCP, 2024) ci porta in Canada, a Vancouver, bellissima città con un clima ideale l'estate, quando la temperatura massima raggiunge i 25 gradi e fa caldo quel tanto che consente di alleggerirsi nell'abbigliamento e svolgere una vita intensa all'aperto nei giardini delle case, nei parchi, in campagna.
Il Nostro ci arriva da Dublino, dove con la moglie Faby ha trascorso anni intensi e bellissimi e si trova a dover scalare una montagna di pregiudizi, tutti a favore dell'industria tedesca.
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Vancouver, 1973. A quel tempo nel Canada occidentale, zona di competenza del mio ufficio, c'era un diffuso benessere, nonostante l'industria manufatturiera fosse scarsamente presente. La ricchezza proveniva dai prodotti del sottosuolo, dall'industria forestale, dalla pesca, dal turismo e dall'allevamento, specie nell'Alberta, dove, nel paniere dei nostri prodotti più richiesti, c'era lo sperma dei tori italiani, specie di quelli della razza chianina, per l'inseminazione artificiale delle mucche canadesi. Comunque, a parte questo aspetto, la bassa densità della popolazione rendeva più economico importare i prodotti finiti, anziché avere industrie locali al limite della produttività.
Con questa struttura economica era ampio il ventaglio della richiesta di beni di consumo italiani; ma limitate a pochi settori le possibilità di vendita nel campo della meccanica. A questa difficoltà, per così dire strutturale, si aggiungeva una certa diffidenza nei confronti delle macchine che non fossero tedesche. Percorrevo il mercato in lungo e in largo, incontravo importatori e commercianti gentili, disponibili, che mi offrivano talvolta la loro amicizia, ma quando si passava a discutere di affari, la reazione, che trovavo un po' scoraggiante, era quasi sempre la stessa: "Voi italiani siete bravissimi nella moda, nel design, nella cucina ma quando si tratta di meccanica... i tedeschi sono in genere imbattibili." E si premuravano di spiegarmi che in generale le macchine italiane, magari esteticamente accattivanti, nella fase di utilizzo dimostravano di non avere né la robustezza né l'efficienza di quelle germaniche.
Pensai che queste negative opinioni fossero il frutto di insufficiente conoscenza dei nostri macchinari. Per dissolvere tali preconcetti, ritenni che la migliore via fosse quella di organizzare missioni settoriali di produttori, con lo scopo che fossero i produttori stessi a confrontarsi, con competenza tecnica, con la situazione locale e a dimostrare agli operatori canadesi le buone caratteristiche funzionali delle machine italiane.
Questo filone di interventi costituì il grosso dell'attività promozionale portata avanti dall'ufficio ICE in quel periodo. E, nella riunione annuale per la programmazione, in ambasciata ad Ottawa, trovai su questa strategia sempre il pieno appoggio sia del consigliere che dell'ambasciatore.
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Sulla base del programma proposto, e successivamente approvato a Roma, arrivavano una decina di delegazioni di produttori l'anno. Spesso, la delegazione era presieduta da un politico, che si faceva anche il giro della comunità italiana. Una volta, una delegazione fu guidata da un simpatico senatore comunista, un buontempone, che riuscì a dare all'iniziativa commerciale anche una piacevole vivacità umoristica. Le missioni erano composte, mediamente, da una ventina di persone. Poiché gli operatori italiani si distinguevano, salvo qualche rara eccezione, per la totale ignoranza di qualsiasi lingua straniera – il che rappresentava un ulteriore svantaggio in un mercato praticamente bilingue (inglese e francese) – ingaggiavo alcune interpreti.
Fu dal Canada che incominciai ad osservare che nel sistema produttivo italiano qualcosa non andava nella direzione che noi, suoi pubblici promotori, auspicavamo. Da una parte c'erano le aziende che, nonostante il sostegno governativo per la promozione delle vendite all'estero e i lauti ricavi, non si preoccupavano, salvo eccezioni, di crescere a dimensioni tali da diventare forti protagoniste sul mercato mondiale. Forse anche per il clima politico del momento, le aziende, in genere, sembravano più interessate a tesaurizzare che ad investire in nuove iniziative e nella tecnologia. Dall'altra parte, sembrava essere assente un regista centrale, capace e determinato a dare certezza di indirizzo programmatico e ad assicurare un fermo coordinamento a livello esecutivo.
Cominciavano così ad intensificare le loro apparizioni all'estero, a briglie sciolte, i Centri Esteri delle Regioni, costituiti o in via di costituzione, le Camere di Commercio, le Associazioni di categoria, i Consorzi, persino le Comunità Montane. Questi soggetti si davano competenze di rappresentare e di promuovere direttamente all'estero segmenti del sistema aziendale nazionale o locale. Queste iniziative – spesso precedute da insufficiente o inesperta preparazione – erano costose e non davano un'immagine esaltante della nostra produzione. Inoltre, disorientavano gli operatori esteri, normali interlocutori degli organi pubblici ufficialmente preposti a quella funzione di promozione che, in un certo senso, tali nuovi soggetti, a volte nati con ben altri obbiettivi, si apprestavano ad invadere. Ne parlammo, brevemente, alla riunione d'area a New York, organizzata dal ministro di allora; ma tutto quello che rimase di quella riunione fu... l'elegante cravatta di seta che il banchiere Rockfeller regalò ai componenti della delegazione, a memoria della loro visita.
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Intanto, dopo aver riflettuto per qualche anno sulle caratteristiche del mercato locale – nel quale l'Italia, persino nei settori chiave della sua economia, era svantaggiata dalla distanza geografica e dalla conseguente difficoltà di effettuare consegne rapide – avevo ideato un progetto promozionale che avevo denominato show room with warehouse (cioè, una sala mostra permanente, con espositori a rotazione, e annesso un deposito dei relativi prodotti). Proponevo di iniziare questa originale e del tutto nuova formula promozionale con il settore dei mobili. Era il 1976; l'anno successivo, il mio trasferimento troncò la possibilità di dare concreto avvio al progetto, che avevo già segnalato a Roma e che avevo illustrato alla riunione del ministro a New York.
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Uno degli aspetti negativi del nostro mestiere di trade commissioner è rappresentato dal fatto che la permanenza in una sede estera è, per norma, transeunte; durata: dai tre ai cinque anni. Talvolta, il trasferimento arriva proprio quando il funzionanrio è nel pieno del suo rendimento professionale.
Anche se questa svantaggiosa regola è controbilanciata dall'esistenza, nell'ufficio, di un nucleo di personale locale non soggetto a trasferimento, non sempre questa circostanza è sufficiente ad assicurare la continuità dei progetti, per motivi vari, non ultimo quello che ogni direttore ha formazione e carattere diversi e, quindi, i suoi programmi di lavoro possono non coincidere con quelli già avviati dal predecessore. E il mio successore non portò avanti il progetto Show room.
Un missione di sistema per la crescita delle imprese italiane in America latina: e' l'obiettivo della missione del vicepresidente e ministro degli Esteri Antonio Tajani in Argentina e Brasile per un ricco programma di incontri e prospettive di investimenti
Con l'intervento del ministro Adolfo Urso, che ha parlato dell'impegno del governo nel valorizzare le eccellenze italiane, si è conclusa a Milano la tre giorni del Made in Italy Summit (1-2-3 ottobre) che ha visto l'intervento di 60 relatori e di quattro ministri.
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